Gandhi e il movimento non violento
Mohandas Karakaramchand Gandhi (1869-1948) è sicuramente il personaggio più rappresentativo della lotta rivoluzionaria non violenta. Questa sua peculiarità, assieme ad altri punti del suo pensiero, lo rende molto vicino alla visione del mondo del Nuovo Umanesimo.
Il personaggio è stato giustamente chiamato Mahatma, cioè grande anima, perché nonostante non fosse dotato di ricchezze o potere è riuscito, con la sola forza della sua profonda umanità, a liberare l’India dall’occupazione coloniale degli inglesi. L’occasione di trattare di Gandhi ci permette di uscire un po’ dal panorama dei pensatori del mondo occidentale per conoscere il contributo alla causa dell’Umanesimo da parte di una persona appartenente ad una cultura profondamente diversa dalla nostra. Certo è che personaggi di tale levatura morale e spirituale superano largamente gli angusti confini della propria cultura, consegnando la propria opera al patrimonio universale dell’umanità.
L’attualità del pensiero di Gandhi consiste in alcuni punti fondamentali: l’autodeterminazione dei popoli, il rifiuto della violenza quale strategia di lotta rivoluzionaria, la tolleranza religiosa. Certo a governare l’India attuale ci sono gli eredi politici dell’organizzazione che pianificò il suo assassinio. I governanti odierni (ma questo ragionamento, sotto altri punti di vista, andrebbe esteso anche a quelli precedenti) non sembrano seguire più i suoi insegnamenti, soprattutto se ci riferiamo alla tolleranza religiosa, privilegiando il dominio degli indù e la riduzione delle autonomie regionali, come nel Kashmir.
In ogni caso l’India resta la più grande democrazia del mondo in grado di dire la sua, come Paese non allineato, nel consesso internazionale. Da questo punto di vista l’Unione Indiana ha mantenuto la politica estera di Jawaharlal Nehru (1889-1964), il primo Primo Ministro indiano considerato delfino di Gandhi .
Autodeterminazione dei popoli e non violenza
Il primo tema è strettamente intrecciato con la lotta del popolo indiano contro il dominio coloniale. Gandhi era convinto della necessità che gli indiani fossero liberi di poter decidere come amministrare il loro Paese perché la miseria nella quale era ridotto dipendeva proprio dal prelievo forzato delle risorse dell’India da parte dei britannici.
Purtroppo a diversi decenni dalla liberazione (e dalla morte di Gandhi, avvenuta nel 1948) il subcontinente indiano versa ancora in condizioni d’estrema povertà e ciò perché l’indipendenza politica non è stata accompagnata da una reale indipendenza economica. Da questo punto di vista il problema dell’India è lo stesso di tutti i Paesi del Terzo Mondo e delle zone sottosviluppate e sfruttate dall’Occidente.
In definitiva il tema dell’autodeterminazione dei popoli non può essere separato da quello dello sfruttamento e dalla dipendenza economica che non permettono la reale indipendenza politica. Naturalmente Gandhi, che non era certo uno sprovveduto, era ben conscio di questa limitazione e si è battuto a lungo nella sua vita per l’autosufficienza dell’India dagli inglesi.
Certo, la sua proposta per superare la dipendenza coloniale dagli inglesi era anacronistica. Gandhi era convinto che il progresso tecnologico portasse più problemi che vantaggi e pensava che gli indiani, come tutti i popoli colonizzati, per emanciparsi dai padroni inglesi, dovessero tornare ad una produzione pre-industriale sia in agricoltura che nella manifattura. Infatti, una delle immagini simbolo del Mahatma lo vede ritratto mentre tesse i sui umili abiti con l’arcolaio. Gandhi avrebbe voluto inserire l’arcolaio nella bandiera indiana. I suoi successori, nella prima Assemblea Costituente il 22 luglio 1947, non ne seguirono il consiglio, sostituendolo con la ruota di Asoka.
Il rifiuto della violenza come strategia di lotta, anche finalizzata ad una causa giusta, è comunque il punto caratterizzante del pensiero di Gandhi. Il Mahatma era convinto che la violenza non potesse essere un mezzo efficace per ottenere gli obbiettivi prefissati e ciò per varie ragioni. Per prima si deva ricordare la profonda umanità del personaggio; poi la sua ferma convinzione che i violenti sono alla lunga più deboli dei non-violenti, e usano la violenza proprio a causa della loro debolezza. Infine Gandhi sosteneva che una liberazione violenta avrebbe generato dei governanti di tale genere, figli del metodo usato per giungere al potere (e se si guarda la storia, non si può non essere d’accordo con Gandhi).
La non-violenza è la più grande forza a disposizione dell’uomo. È ancora più forte della più potente arma di distruzione ideata dagli uomini. La distruzione non è la legge degli uomini. L’uomo vive liberamente solo se pronto a morire, se necessario, anche per mano di suo fratello, mai ad ucciderlo. Ogni assassinio o ferita, non importa per quale causa, commessa o inflitta a un altro è un crimine contro l’umanità.
Harijan, 20 luglio 1935
In ogni caso non bisogna pensare che Gandhi proponesse un atteggiamento passivo di fronte agli oppressori e ai violenti, tutt’altro. La strategia di lotta organizzata dal Mahatma consisteva nella resistenza passiva, cioè non reagire alle provocazioni dei violenti (azione che richiedeva un’enorme forza morale e Gandhi lo sapeva bene) e nella disobbedienza civile. In pratica il rifiuto di sottoporsi a leggi ingiuste (si ricordino, a tal proposito, la campagna contro le stoffe inglesi oppure la marcia del sale, altre volte si proclamarono giornate di digiuno e preghiera, veri e propri scioperi generali in grado di paralizzare l’intero Paese).
Il rifiuto della violenza è anche uno dei punti fondamentali delle idee del Nuovo Umanesimo ed è legato con la convinzione che i veri cambiamenti devono partire dalla base sociale e non essere imposti dall’alto.
La tolleranza religiosa
Ultimo grande tema che trattiamo in questa sede è la tolleranza religiosa. Nel caso di Gandhi il problema si riferisce alla particolare situazione etnica dell’India. Paese immenso, grande quasi quanto l’Europa intera, abitato da un’infinita di gruppi etnici e professioni religiose diverse, spesso a stretto contatto tra loro, vero e proprio laboratorio della società globale.
Gandhi era convinto che questa fosse una ricchezza dell’India e che andasse salvaguardata, ma senza dividere politicamente la nazione. In fondo le diversità religiose potevano essere superate da un comune interesse verso l’essere umano. Nella pratica gli eventi non andarono come sperava Gandhi.
I musulmani della Lega musulmana, guidati da Mohammad Ali Jinnah (1876-1948), pretesero uno stato indipendente, con la conseguenza che la linea di confine tra India e Pakistan, tracciata nel 1947, spezzò molti legami umani costringendo milioni di persone ad abbandonare la propria casa. Gandhi era consapevole della portata esplosiva della contrapposizione religiosa e per questo si oppose alla separazione dell’India. Nelle città dove imperversava la violenza Gandhi riuscì quasi a fare ciò che gli eserciti non erano riusciti a fare. A Calcutta, con la sua semplice presenza, accompagnata da un digiuno a rischio della propria vita (aveva ben 77 anni), riuscì a fermare la lotta interna tra indù e musulmani.
Quest’enorme sforzo lo rese inviso ai fanatici indù, la professione religiosa di Gandhi, maggioritaria in India. Fu uno di loro, Nathuram Godsè, membro dell’organizzazione terroristica RSS, che lo assassinò il 30 gennaio del 1948.